Cactus, piante grasse, succulente, agavi, fichi d’india.
Qualunque nome gli diamo, nel nostro immaginario sono spine su spine, aculei spiraliformi, frutti e fiori fastosi e caldo, tanto caldo. Per giorni, per mesi, per anni.
La terra scolora, si consuma, diventa sabbia. E più il terreno sbiadisce, più loro sfoggiano verdi smeraldi, verdi acqua, verdi acidi.
Il sole li acceca, ma loro imperturbabili stanno immobili, continuando l’esistenza con un ritmo di crescita per noi impossibile da sostenere anche solo col pensiero.
A volte ci sopravvivono, diventando maestosi guardiani che testimoniano tempi lontani.
Rimangono fermi a fare da quinta al paesaggio che muta e misteriosi continuano a vivere anche senza di noi.
Indispensabili sono il caldo, il silenzio, il vento, l’umidità. E la solitudine.
La loro calma, se le condizioni atmosferiche sono felici, fa dei balzi quantici che scardinano la lentezza a cui ci abituano da sempre.
All’improvviso crescono, si moltiplicano, fioriscono. Occupano spazio fra terreni pietrosi privi di qualsiasi nutrimento, oppure nelle fessure di muri scrostati e fatiscenti. Testimoni di un passato forse glorioso, ma ora completamente distrutto.
Nella devastazione dello spazio, loro ricreano giardini composti, geometrici, ordinati. Puntellano gli sgretolamenti con braccia spinose, assecondano la bellezza rimasta esaltandola oppure la occultano dietro pale e rami.
Ricostruiscono città vegetali che rimarginano ferite umane desolanti.
E nonostante queste crescite vertiginose, improbabili, su terreni e case senza speranza, loro crescono beffardi e autosufficienti.
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