“Ti vedo pallida, non stai bene? No meglio, non sei pallida, hai un colore giallo vitreo. Sembri un fantasma disadattato.Non ce la farai, mi dispiace dirtelo ma io ho un sesto senso molto particolare. In famiglia me lo dicono tutti. Forse dovresti tornare a casa e riprovarci la prossima volta”.
È lei. Silvia Trollai di Torlonia.
Alta, spalle larghe da lottatrice, un mento pronunciato su una bocca laccata di cinabro. Altera e disinvolta, padrona dell’ateneo.
A lezione con me tutto l’anno, sempre con la mano alzata, contestatrice dallo sguardo obliquo.
Informata fino all’inverosimile, attraente per quei capelli fluenti e lucidi, per quelle smorfie che sottolineano il suo diniego per ogni singola parola del professore di turno. Attraente ma repulsiva, per quella spanna sopra gli altri, forse per il lignaggio, forse per le scuole esclusive da lei masticate dall’età di quattro anni.
Non so chi me l’avesse presentata. Credo sia arrivata dal nulla senza altre spiegazioni.
E soprattutto non so perché mi segue ovunque. Niente ci lega, niente può avvicinarci.
Per lei sono un mistero: silenziosa, abile nel camuffare altezza e preparazione, vittima di timidezze inverosimili, sono un caso da studiare, un animale raro in un ambiente disinvolto e internazionale.
La Trollai di Torlonia forse vuole redimermi, o meglio forse vuole plasmarmi, calata nel sogno hollywoodiano di un Henry Higgins di turno.
Ma io non sono Audrey Hepburn. Ma neppure lontanamente.
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